Ma allora era meglio....

L’intervista di Alfredo Cerruti al Fatto quotidiano

1. BOMBASTICA INTERVISTA AD ALFREDO CERRUTI, TALENT SCOUT, AUTORE, ATTORE, EX DISCOGRAFICO E SOPRATTUTTO VOCE NARRANTE DEI DEMENZIALISSIMI “SQUALLOR” – 2. “QUANDO COL SECONDO DISCO VENDEMMO 70 MILA COPIE INTUIMMO CHE IL NOSTRO PASSATEMPO NON ERA PIÙ UN HOBBY. LA VOLGARITÀ APPARENTE SERVIVA PER DIRE CHE NELL’ITALIA BIGOTTA DELL’EPOCA LA LIBERTÀ DI ESPRESSIONE MANCAVA COME L’ARIA” – 3. “NELLE NOSTRE CANZONI PARLAMMO ANCHE DI BERLUSCONI. LUI ERA GIÀ SFIGATO, NOI PIENI DI FIGHE. CON LOREDANA BERTE’ CI SIAMO MANDATI A FARE IN CULO INFINITE VOLTE E UNA VOLTA CI SIAMO ANCHE PICCHIATI. LA SCULACCIAI SUL DIVANO DAVANTI A MARIO LAVEZZI” – 4. “PENSI CHE IO NON HO MAI RIASCOLTATO UNA NOSTRA SOLA CANZONE E HO SEMPRE RIFIUTATO REVIVAL PIÙ O MENO PATETICI. QUANDO ANDAMMO AL FUNERALE DI PACE, IO E GLI ALTRI CI GUARDAMMO IN FACCIA. PARLAI IO: “SIAMO RIMASTI IN TRE, COME I POLICE”

Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano”
(pubblicata su Dagospia il 21/12/2014)

alfredo cerruti

Alfredo Cerruti

Se dipendesse da lui, la partita dialettica finirebbe in un amen: “Sono Alfredo Cerruti, ex discografico di successo, voce narrante degli Squallor e uomo fondamentalmente assai felice. Non covo invidie, non ho rancori, non ho neanche un cazzo di minuscolo rimpianto e non concedo interviste dal ’79“.

L’eccezione, a lungo rimandata, prende forma in una fredda mattina di dicembre in cui Cerruti Alfredo, napoletano del ’42, figlio di un avvocato napoletano: “civilista” e di una madre di Pordenone circuita in circostanze tumultuose: “Papà la incontrò in Friuli durante la Seconda Guerra Mondiale per ragioni di lavoro legate ad un terreno e si innamorò.
La scopò la sera stessa e venni al mondo così, un po’ per caso un po’ per passione
” decide di raccontarsi per fermare le stagioni. Da autodidatta: “La scuola mi rompeva enormemente i coglioni, i professori peggio. A un certo punto del Liceo abbandonai la gara con l’istruzione e mi liberai dall’inutilità con estremo sollievo. Non è meglio la vita del vocabolario di Greco?

Cerruti ha attraversato la musica italiana alla testa della Cbs: “La mia vera famiglia“, della Cgd e della Ricordi. Direttore artistico, mentore, talent scout, autore in memorabili programmi radiotelevisivi e coscienza ironica di un microcosmo abituato a prendersi troppo sul serio, questo settantaduenne con i capelli bianchi e lunghi e il naso da Cyrano ha smesso di battagliare: “Sono in pensione” ma non di ridere: “L’ho sempre fatto. Cercando, anzi inseguendo l’allegria. Senza, l’esistenza somiglia a un’agonia. E io di agonizzare non avevo voglia“.

Troia (1973)

Troia (1973)

Dal 1969 con colleghi come Daniele Pace, Totò Savio e Giancarlo Bigazzi, Cerruti inventò gli Squallor. Un gruppo anomalo che pur non essendo mai apparso in pubblico e avendo subito la ciclica censura delle radio, pubblicò trentacinque album, ispirò due film e, fondendo satira allo stato puro e turpiloquio senza freni, segnò il costume dell’epoca dipingendo indelebili quadri di assoluto non-sense.

I titoli degli album: “Se vuole glieli recito a memoria” e le conseguenti copertine, spiegavano agli affezionati le regole d’ingaggio degli Squallor senza bisogno di ulteriori avvertenze: “Se si esclude il primo disco, Troia, l’unico senza ‘male’ parole” dice Cerruti, “Ci sbizzarrimmo“. Fa una pausa, poi inizia a declamarli: “Ascolti, me li ricordo tutti. Il secondo si intitolava Palle, il terzo Vacca, il quarto Pompa, il quinto Cappelle. Continuo?

Si fermi e ci racconti come iniziò il suo viaggio.

Io e miei compagni d’avventura eravamo organici al mondo della musica. Avevamo a che fare con i cantanti e i cantanti, non so se lo sa, sono degli scassacazzi senza eguali. Egotici, arroganti, autoreferenziali. Volevano questo e pretendevano quell’altro. Gente micidiale. Usciti dai nostri incontri quotidiani con le stelle della musica, eravamo neri come la notte. Allora pensammo di donarci un po’ di luce. Parodiammo il nostro universo e in quel modo ci salvammo l’anima.

Cappelle (1978)

Cappelle (1978)

Come vi venne in mente di incidere un disco?

Ero rimasto colpito da un vecchio film inglese “Il mio amico il diavolo” con una stupenda Raquel Welch girato da Stanley Donen. Non aveva il talento del suo omonimo Kubrick, ma facendosi aiutare da Dudley Moore, Donen aveva messo in scena una variazione sul tema di Faust molto interessante. Uno dei personaggi interpretava una canzone che per buona parte alternava parti cantate a parte recitate. Provai a fare la stessa cosa utilizzando la base di Lady Barbara dei Profeti e in un giorno di caldo mostruoso, nacque il nostro primo pezzo, 38 Luglio. I miei amici ridevano. Gli chiesi cosa cazzo avessero da ridere.

E loro?

Non seppero spiegarlo. “Funziona Alfrè, che ti dobbiamo dire?“. Avevano ragione. Per discutere sull’ipotesi di un disco avevo convocato Rinaldi, un grandissimo attore e doppiatore. Pace e Bigazzi dissero: “Ma quale Rinaldi? Il disco lo facciamo noi“. Allora unimmo le forze, incidemmo un 45 giri e proseguimmo. Ho sempre provato a lavorare divertendomi perché non c’è niente di più faticoso di andare in ufficio con il muso lungo.

I suoi amici raccontano che lei in ufficio si presentava tardi.

alfredo cerruti e gigi sabani

Alfredo Cerruti e Gigi Sabani

Mi piaceva dormire, è vero. Magari fino a mezzogiorno. Però in ufficio andavo e stavo sempre molto attento a non trasformare il lavoro in ossessione. Oggi che non ho più un mestiere capisco quanto quell’attitudine alla leggerezza mi sia servita. Ai tempi della Schif Parade con Bice Valori e Luciano Salce, delle nostre sciocchezze e dei nostri giochi di parole ridevamo fino alle lacrime.

Era un mondo d’arte e vizi?

Il mio unico vizio sono state le donne. Ho amato molto e gaurdandomi indietro sono lieto di averlo fatto, ma con la droga ad esempio non ho mai avuto a che fare. Ho fumato un’unica canna in vita mia e sono stato malissimo. Eravamo io, un mio amico e due fighe pazzesche. Avvertii uno strano odore provenire da una sigaretta e me la feci passare. Non l’avessi mai fatto. Mi sentii subito malissimo. Più sostenevo di star bene, più perdevo le mie sicurezze. Alla fine mi ritrovai in bagno, da solo, pensando di morire da un momento all’altro. Le due strafighe, naturalmente, evaporarono.

La Rca nei 70 dominava il panorama romano, ma l’altro polo musicale del Paese era a Milano.

A Milano arrivai un po’ per caso, grazie a Gino Paoli. Lo avevo incontrato a Roma in un locale di Via Veneto e lui, dal nulla, mi aveva offerto generosa ospitalità nella sua casa milanese. “Vieni quando vuoi, c’è tanto posto“.

Uccelli d'italia (1984)

Uccelli d’italia (1984)

Diventaste amici?

Per qualche tempo a Gino feci anche da autista. Paoli era fantastico, ma malinconico. Aveva sofferto per amore. Stefania Sandrelli l’aveva turbato perché Stefania, va detto, era di una bellezza inaudita. La prima volta che la vidi con un vestito azzurro celestiale rimasi senza parole: “Ma da dove cazzo viene una così, dal Paradiso?“.

Per Stefania Sandrelli, Gino Paoli tentò il suicidio.

Si era sparato, ma non era morto, Gino. Era cazzuto, ma all’improvviso faceva strani discorsi. Una volta, in macchina, a metà tra lo scherzo e l’intenzione seria, disse: “Quasi quasi sterzo e mi butto nel burrone“. Lo guardai con preoccupata dolcezza: “Ma quale burrone? Al massimo gettiamoci nel burro“.

Sdrammatizzava spesso?

Sempre. Tutte le volte che potevo. Gliel’ho detto, avevo sempre a che fare con i rompicoglioni. Evadere dalla realtà con il gioco era terapeutico. Se escludo Dorelli e Bertoli, due signori e due uomini di rara simpatia, fatico a ricordare cantanti che amavo frequentare nel privato. Per me erano più noiosi del Fado di Amàlia Rodrigues. Gli Squallor furono una reazione al nostro universo di riferimento. Dopo una riunione con I Pooh, riunirmi con gli amici e dissacrare rappresentava un’esigenza.

Fotografie di rompicoglioni storici?

Potrei farle decine di nomi. C’erano i rompicoglioni strutturali e poi c’erano i matti. Loredana Bertè, ad esempio, era completamente matta.

Scoraggiando (1982)

Scoraggiando (1982)

La conobbe bene?

Benissimo. Una volta, forse eravamo vicini al Natale, si presentò con settanta magliette in regalo. Tutte per me. Quelle con il coccodrillo, quelle francesi.

Gentile.

Era capace di slanci di affetto inauditi e di follie non prevedibili. Ci siamo mandati a fare in culo un’infinità di volte e una volta ci siamo anche picchiati.

Dice davvero?

E certo, che dico per finta? La sculacciai sul divano davanti a Mario Lavezzi. Mario, poverino, piangeva: “Non farle male, ti prego“. Il più delle volte gli scontri si risolvevano in abbracci. Perché Loredana litigava, ma sapeva voler bene e oltre a essere un’artista vera, aveva una qualità che ai miei occhi è sempre stata importante.

Quale, Cerruti?

Non le è mai fregato nulla del denaro. A differenza di quella belva di Marcella Bella, una ragazza che accumulava soldi senza spendere una lira, Loredana le sue fortune le ha sempre sputtanate. Sono della stessa scuola. Che gusto c’è a guadagnare se poi le banconote le metti sotto il materasso?

Altri litigi?

Una volta mandai a fare in culo anche Claudia Mori. Avrei dovuto fare l’autore per Celentano, ma alla fine, comunicandomelo all’ultimo istante, mi preferirono Vincenzo Cerami. Non la presi bene e le feci conoscere il mio disappunto. Tra i due, Adriano, che non è matto per niente ed è solo molto furbo, è la mente. Lei invece è il braccio. Dal suo eremo brianzolo, una casa che Celentano ha edificato e fatto abbattere decine di volte senza una ragione precisa, Adriano decide tutto. Lei esegue e rimane nell’ombra. Lui è felice perché può recitare da dio. E un po’ divino, in effetti, Adriano è.

Tromba (1980)

Tromba (1980)

Per il pubblico che vi seguiva, erano una divinità anche gli Squallor.

Si creò una comunità di insospettabili che superava il conformismo e sembrava capire il senso del nostro esperimento. Quando con il secondo disco vendemmo settantamila copie intuimmo che il nostro passatempo non era più soltanto un hobby a cui dedicarsi nei ritagli di tempo.

In cosa consisteva il vostro esperimento?

Nel non prenderci sul serio, nel ribaltare le consuetudini, nell’esagerare consapevolmente, nell’usare una volgarità apparente per dire qualcos’altro.

Cosa?

Che nell’Italia bigotta dell’epoca la libertà di espressione mancava come l’aria. In ambito musicale si temevano persino arie ingenue come “Far l’amore con te” di Gianni Nazzaro e in politica andava anche peggio. Prenda ad esempio il Pci.

Preso.

Ecco, io sono stato sempre di sinistra e alla politica mi sono sempre interessato. Pensi che tra di noi discutevamo della caduta del Muro di Berlino almeno quindici anni prima del suo crollo. Ma il Pci non mi piaceva. Era un partito monolitico che pretendeva di indirizzare la morale, dettare le regole del buon gusto, decidere chi poteva sedersi a tavola e chi doveva rimanere fuori dalla porta. Non ti faceva accomodare, il Pci. E io alle feste a cui non ero invitato non sono mai andato in vita mia.

Vostro bersaglio prediletto era il Vaticano.

Manzo (1986)

Manzo (1986)

Non ci hanno mai scomunicato. Forse additarci avrebbe significato riconoscerci. Siccome i pretori erano scatenati, prima di pubblicare un disco comunque ci cautelavamo. Il nostro avvocato era il direttore della Siae. Noi gli facevamo ascoltare gli LP per capire se poteva esserci casino. In genere non accadeva nulla: “Tutto a posto, andate avanti“.

Ve la prendeste anche con il Partito Socialista.

Ci occupammo spesso di Craxi e anche di De Michelis.

Al ministro dedicaste anche una canzone. Demiculis.

E nacque Demiculis: ‘vieni avanti, grecino‘ gridò l’infermiera. Piccolo, goffo, con dei riccioloni unti già dietro, e un paio di fogli in mano del ministero“. Una cosa innocente in fondo. Parlammo anche di Berlusconi. Irridendolo. Lui era già uno sfigato, noi eravamo pieni di fighe.

Soprassediamo.

Sa che un giorno conobbi anche l’ex ministro De Lorenzo? Mi cercò per scrivere uno spot contro l’Aids. Gli dissi: “Mi metto al lavoro, ma non è affatto detto che il risultato finale la convinca“.

E come finì?

Come preventivato. Lo slogan che avevo scelto: “Col cazzo che lo prendo, l’Aids” non gli piacque granché.

Del cinema e dei due film che agli Squallor si ispirarono, “Arrapaho” e “Uccelli d’Italia” di Ciro Ippolito che ricordi ha?

I film sono un’altra cosa. Scrivemmo il copione in due giorni a casa mia, girammo per poco più di una settimana e ci divertimmo molto. A differenza di Uccelli d’Italia che incassò poco, Arrapaho sbancò i botteghini. Quasi cinque miliardi di lire dell’epoca. Un trionfo.

Arrapaho (1983)

Arrapaho (1983)

Meritato?

Non direi. Il film era tremendo. Un’accozzaglia di immagini senza costrutto intervallato qui e là da qualche battuta riuscita.

Per Morando Morandini “Arrapaho” è il peggior film della storia del cinema italiano.

Ha ragione. Dargli torto è impossibile. Però una cosa me la faccia dire.

Prego Cerruti.

Non è che i film di adesso siano poi molto meglio. Non ridi neanche se ti ammazzi. Non parliamo poi della tv. Un incubo, una sfilata di cadaveri. Non capisco come gli autori, chiusa la porta di casa, non si vergognino e non si pentano.

Dovrebbero?

Eccome. C’è stata una tv migliore. Lavorai con Arbore a Indietro tutta. Era un mezzo capolavoro quel programma. Ci ritrovavamo a casa di Renzo con la mortadella e le michette. Poi, a pancia piena, ragionavamo. Certe indicazioni le davo direttamente dalla terrazza. Fumavo come un pazzo e a casa Arbore il fumo era bandito.

Cerruti a Indietro Tutta

In Indietro tutta lei interpretava la voce poliziesca che forniva informazioni surreali al marinaio Arbore: “Volante uno a volante due“.

Con Boncompagni, Renzo e Mario Marenco, uomo di intelligenza formidabile, pari solo alla lentezza, ci siamo divertiti come bambini felici. Ogni volta che scendevo a Roma era una festa. Una zingarata in stile Amici miei. Facevamo scherzi dalla mattina alla sera, ma il vero teatro delle nostre scorribande era la notte.

Cosa facevate di notte?

Chiamavamo i clienti degli alberghi a tarda sera e gli annunciavamo una gita gratuita ai Fori romani per l’alba del giorno successivo. Poi ci appostavamo. Avrebbe dovuto vederli i poveri clienti. Pesti dal sonno, quasi in pigiama, sulla porta dell’albergo ad aspettare un Pullman che non sarebbe mai arrivato.

Lei crede nei ritorni?

Neanche un po’. Né in quelli sentimentali, né in quelli artistici. Gli Squallor si spensero perché gli altri membri del gruppo scomparvero all’improvviso, ma forse sarebbero finiti comunque. Ogni cosa ha un suo tempo. E noi eravamo i primi a saperlo. Pensi che io non ho mai riascoltato una nostra sola canzone e ho sempre rifiutato revival più o meno patetici. Quando andammo al funerale di Pace, io e gli altri ci guardammo in faccia. Parlai io: “Siamo rimasti in tre, come i Police“.

Alfredo Cerruti e Mina

Ha detto di aver molto amato, ma non ha raccontato nulla della sua storia d’amore con Mina.

Di Mina non parlo. Posso dire soltanto che essere inseguiti dai paparazzi anche mentre prendi un caffè non è semplice. Per me andare al bar, addentare un cornetto e fare una colazione in santa pace è un perfetto esempio di felicità.

Si è almeno spiegato perché da tanti anni Mina si sia volontariamente allontanata dal palco?

Non me lo sono mai spiegato, ma so che ha fatto bene. Anzi, benissimo.